Le Greguerías

Nella letteraria “forma breve”, assieme all’aforisma, alle massime e alle sentenze, agli
epigrammi, agli apoftegmi, ecc…, ecco che nei primi anni del ‘Novecento appare, o forse è
meglio dire “esplode”, la greguería grazie all’inesauribile vena creativa, solo in apparenza infantile, di Ramón Gómez de la Serna Puig.

Nato a Madrid nel 1888, è stato scrittore, giornalista, saggista, drammaturgo, biografo. Divenuto argentino d’adozione, morirà a Buenos Aires nel 1963 dopo aver lasciato dietro di sé molte opere all’epoca apprezzate, ma ciò che lo ha reso davvero memorabile è stata proprio l’invenzione delle greguerías, le cui molteplici raccolte furono pubblicate e spesso rieditate, tradotte in varie lingue e “consumate” da un vasto pubblico di ammiratori comuni, di intellettuali e di scrittori dell’epoca.

Le greguerías di Ramón Gómez de la Serna sfidano il tempo e rimangono a tutt’oggi pilastri anomali della “forma breve”. Difficile dare una definizione precisa a ciò che si può comprendere appieno solo leggendo questo curioso e affascinante stile di scrittura sintetica. Ha pensato però l’autore stesso ad illustrare, come nessuno avrebbe potuto fare meglio, il senso pieno della greguería, e lo fa proprio a mo’ di prefazione quando viene pubblicata una sua importante silloge.

Spiega, de la Serna, in modo così preciso e appassionato, così puntuale e al tempo stesso fantasioso la nascita, lo stile e lo scopo della greguería, che ci pare d’imprescindibile importanza per gli estimatori del genere, riproporne qui la sapiente traduzione italiana fatta da Danilo Manera quando, nel 2002, l’editore Robin diede alla stampa “Mille e una greguería”.

Anna Antolisei

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“ MILLE E UNA GREGUERÍA ”

Gomez de la Serna

Offriamo qui un libero estratto di passi del lungo commento premesso da Ramón Gómez de la Serna, a
partire dalla V edizione (1952), all’antologia da lui stesso preparata per la collana “Austral”
dell’editrice Espasa-Calpe.
La IX edizione di tale volume (Greguerías. Seleccion 1910-1960, Madrid 1991, a cura di C. Nicolàs) è
servita da base per la presente scelta, vicina allo spirito dell’Autore anche nella spigliatezza del
montaggio, che ci esime dall’indicare le omissioni. Per motivi che risulteranno ovvi al lettore, il termine greguería non è stato tradotto; i suoi derivati italiani sono stati formati basandosi sulla pronuncia.

(Danilo Manera: “Mille e una greguería”)

Dal 1910 mi dedico alla greguería, che nacque in un giorno di scetticismo e stanchezza in cui presi tutti gli ingredienti del mio laboratorio, flacone dopo flacone, e li mescolai finché dal loro precipitato, depurazione e radicale dissolvimento sorse la greguería. Da allora la greguería è per me i1 fiore di tutto ciò che resta, vive e resiste maggiormente all’incredulità.

L’incontro con la greguería è stata la mia fortuna. Grazie a lei ho vissuto, tenuto conferenze, viaggiato e guadagnato una notorietà universale. In realtà, mi dedico alla greguería fin dall’infanzia e già ne lanciavo alla mia balia. E l’unica cosa che non improvviso mai. Devono essere lente e naturali. Sono una goccia dei secoli che mi attraversa il cranio.

Perché si chiamano greguerías? Scoperto il genere, mi resi conto che bisognava trovare una parola che non fosse riflessiva né troppo usata, per battezzarlo a dovere. Allora infilai la mano nella grande urna delle parole e affidandomi al caso, che è il padrino di battesimo delle trovate migliori,
estrassi una pallina… Era greguería, e mi tenni quella parola perché suonava bene e racchiudeva segreti nel suo sesso.

Schiamazzo, trambusto, parlata incomprensibile e confusa: è quello che gridano le cose. Almeno non c’è dubbio che ho battezzato un genere con una parola sperduta nel dizionario, che non nominava nulla e che ora, scritta su un giornale o detta in un microfono, rimanda a me che ne ho cambiato il senso, trasformandola in quello che non era.

La cosa accadde a Madrid, al primo piano del n. 11 di calle de la Puebla. Era un giorno schiacciato da
un temporale estivo. Avevo la fronte gonfia. Mi affacciavo al balcone e poi tornavo a sedermi nella stanza. Sul mio tavolo le forbici, spalancate come quando i pellicani aprono il becco nei giorni di calura, disturbavano le idee. Le chiusi. Alla fine, in un’ultima chiamata al balcone, urtando l’angolo del divano nell’uscire a cercare quel che stava tra cielo e terra, trovai l’invenzione della greguería.
Sì… Io volevo dire, avevo pensato… ricordando l’Arno a Firenze… di fronte alla pensione in cui
alloggiavo… che la sponda opposta… Sì, la sponda di là voleva trovarsi dalla parte di qua… Questo
desiderio inaudito, ma reale… Questa perturbazione della stabilità delle due sponde, che cos’era? Era… una greguería. Così mi uscì dalla grancassa cerebrale questa parola che non sapevo bene cosa volesse dire e la cercai sul dizionario.

Le greguerías hanno qualcosa dell’indovinello, evitano l’aspetto del colmo e non devono mai essere barzellette o facezie, per quanto lo possano sembrare. Non devono somigliare a nulla che sia già stato detto. Non sono riflessioni, né hanno niente a che vedere con esse, giacché bisogna diffidare delle riflessioni, che sono come quelle palle di neve che fabbricano i monelli cattivi nascondendo una pietra dentro la neve.
La greguería non è nemmeno aforistica. L’aforisma è enfatico e sentenzioso. Io non lo pratico.
Si riduce quindi alla metafora?
Tutto quanto è materiale e immateriale può essere oggetto di metafora. La metafora moltiplica il mondo, senza far caso al retore che proibisce di collegare cose solo perché lui non è capace di farlo. Umorismo + metafora: greguería.

Se la greguería ha qualcosa in comune con qualcosa, è con l’haiku, ma è un haiku in prosa, così come è una casida arabo-andalusa meno amorosa della casida. L’Oriente e l’Occidente si abbracciano nella
greguería. Essa però ha meno tintinno di cristallo e meno boccuccia da epigramma sentimentale. Non la si può scrivere sui ventagli. E’ un aneroide. Non è né il troppo poetico, né il troppo pacchiano.

Nell’antichità si trovano greguerías perfette. Ad esempio, sono greguerías la frase di Luciano:
Quando grandina sulla terra è perché tremano le viti della luna”, o l’altra di Euripide: “Il miele è il lavoro pubblico delle api”. “Gregherizzano” sia Orazio chiamando saliere gli occhi, sia Carlomagno quando chiede: “Qual e il sogno degli svegli?” e si risponde: «La speranza».

Pascal gregherizza quando dice che “i fiumi sono strade che camminano”, e così fa Quevedo, quando dice che “gli occhi piccoli hanno pupille e quelli grandi ragazze cresciute” per arrivare fino a Victor Hugo, che definisce il mormorio come “il fumo della conversazione”, o scrive: “i salici sono spuntati dagli acquazzoni del diluvio”.
Si possono citare anche greguerías in Heine: “Perfino dopo il pianto più sublime uno finisce per soffiarsi il naso”, e di Hebbel: “Il profumo è la morte dei fiori”, o “Le pulci sono gli unici animali che non hanno le pulci” o “L’uomo è in estasi solo quando prega o si rade”, aggiungendo infine quelle di Jules Renard, che gregherizza dicendo che “quando piove viene la pelle d’oca allo stagno” o che “La chiocciola si è piantata in testa due ferri da calza”.

Saint-Pol Roux, un po’ precursore in tutto, detta alcune definizioni da greguería: «levatrice della luce: il gallo» – «cimitero con le ali: volo di corvi» – «foglie d’insalata vive: le rane» – «gli alberi si scambiano uccelli come se fossero parole».
Persino José Zorrilla incappa in una greguería scrivendo: “Il gallo col suo passo orgoglioso va
seminando stelle per terra
”. E Santayana gregherizza quando dice: “Erano donne franche come le patate cotte con la buccia e senza sale”.
San Francesco di Sales compone una greguería quando scrive: «Le lepri diventano bianche d’inverno
sui nostri monti perché non vedono, né mangiano altro che neve
».
Paul Verlaine gregherizza col suo: “Dalia, cortigiana dal cluro seno”, benché Lautréamont avesse già detto “cosce di camelia”, e Cechov incorre in una greguería scrivendo: “Eliotropio, odore di vedova”.
Anche Franklin gregherizza quando dice: “Tre traslochi equivalgono a un incendio”.

Greguerías più alla moderna sono quelle di Apollinaire quando dice: “I ricordi sono corni da caccia, il cui suono muore nel vento”, o quando poeticamente scrive: “La tua lingua, pesce rosso nel boccale della tua voce”.
Gregherizza Paul Valéry quando definisce il vento “come mille fazzolettini verdi” o Bernard Shaw
quando dice: “In cielo un angelo non deve avere nulla di straordinario”. Ne ricordo anche di
Rubén Dario: “Il peloso granchio ha spine di rosa”, o di Cocteau: “Il diamante è un figlio arricchito del corbone” o “Venezia è una negra piena di collane e morta nel bagno”.
Gregherizzano il creazionista Huidobro: “Gli ascensori salgono come il mercurio nel termometro”, e Garcia Lorca: “Gli ubriachi fanno uno spuntino di morte”, o “Sciami di finestre sforacchiano una coscia della notte”, o “Paura di mollusco senza conchiglia”.
La migliore greguería di Eugenio d’Ors e forse questa: «Quando la stiratrice avvicina il ferro alla guancia per sentire se è caldo, è come se si preparasse a telefonare all’inferno». Buone sono quelle di Edmundo de Ory: «II fischio è 1o scheletro della parola», «La fisarmonica della settimana si rompe sempre di domenica». E il caro e ammirato Jardiel Poncela ha gregherizzato così: «L’unica cosa che alla donna interessa della testa dell’uomo sono i capelli», «Suicidarsi è salire su un carro funebre in moto», «La vita è tanto amara, che stimola quotidianamente l’appetito».

A Buenos Aires e Montevideo, nel 1931, i giornali organizzarono concorsi pubblici di greguerías
chiedendomi di firmare il diploma in palio. A Buenos Aires vinse una greguería che diceva: «La Q nacque un giorno in cui la O, piena d’allegria, agitò la coda». A Montevideo fu premiata questa: “Quando le due lancette dell’orologio si riuniscono è per chiedersi: che ora è?”.

In Guatemala, Soler y Perez ne ha scritte di riuscite come queste: «Dopo che c’è stato molto rumore, il silenzio digerisce» – «Quella bambina diventava sempre più grassa per la soddisfazione che le causava il dimagrire» – «La lavagna è uno specchio che osserva un lutto rigoroso» – «La B è la congiunzione delle cifre del 13» – «L’ostetrica è la portiera della vita» – «Il pellicano è un mestolo con le ali» – «L’organo è un pianoforte ventriloquo».

Tra i buoni autori recenti di greguerías c’è Jacinto Miquelarena, che ha scritto: “Per il 33 delle sue orecchie, le regalarono un 88 di corallo”, «La scala a chiocciola è il cavatappi delle torri», «La motocicletta è una braciola d’automobile», «La Z è il 7 che ascolta la messa».

Certamente, quando a volte mi comparavano a Max Jacob e credevano addirittura di vedere un suo influsso su di me, io sorridevo. Molti anni dopo le mie prime greguerías, Picasso mi disse a casa sua che c’era uno scrittore ermetico, quasi sconosciuto, letto soltanto dagli iniziati, che si chiamava Max Jacob, e che forse ci somigliavamo un po’ nell’esprimerci. Qualche anno dopo conobbi il clown lunare che fu Max Jacob e ridemmo della notte insieme e in modo diverso, perché lui era un mitilo chiuso e io un cavalluccio marino sboccato.

La greguería non consiste in nient’altro che una sfumatura tra tutte le sfumature, la sfumatura d’un plurale, d’una parolina – “Senta, le dirò una parolina” – una virgola, un accento, un qualcosa che potrà magari essere un errore, uno sproposito, un balbettio, una smaccata esagerazione, un sassolino, un numero, una sfacciataggine, un abbaglio.
La greguería è selvatica, scontrosa, introvabile. La greguería è l’audacia e la timidezza, è la “maniera” senza manierismo.

La greguería è come quei fiori d’acqua che vengono dal Giappone e che, pur essendo un’inezia, messi in acqua “gonfiano, si ingrandiscono e diventano fiori”.
La greguería risarcisce, consola, è un refrigerio inaspettato.
La greguería, sebbene proprio in ciò consista la sua corruzione, deve raccogliere argomenti molto lodevoli, molto passeggeri ed effimeri, perché la corruzione è umana e 1’arte umana deve godere e
perfezionarsi e riposare in questo decomporsi.

La greguería è il genere che si deve scrivere sulle panchine dei giardini pubblici, sulle spallette dei ponti, sui tavolini dei caffè, viaggiando da soli su lente carrozze che seguono i funerali, sul tavolo di cucina, accanto al camino, eccetera.

La greguería non si trova in un punto determinato, né con sicurezza in nessun posto, ma tutt’a un tratto la si acciuffa guardando la scia di pulviscolo che scende dal sole fino al pavimento della stanza e che si forma quando si socchiude appena uno spiraglio impercettibile tra gli scuri delle finestre sotto il sole dei meriggi estivi. Con quanto presentimento della greguería guardavamo da bambini questa spirituale materializzazione della luce nella casa semibuia di nostra nonna!

La greguería è, per la sua forma, per il suo imballaggio, la minuscola urna cineraria che mi occorreva per 1e mie ceneri quotidiane, e che m’ha dato la misura esatta delle mie aspirazioni, distogliendomi da tutte quelle accidentali e in sensate.
La greguería ha la brillantezza e la policromia delle piastrelle di ceramica; è un chiodo piantato nel muro, un chiodo che si fissa intensamente; è quello che abbiamo negli occhi e racchiude le emozioni della vita e la paura della morte; è ciò che possiamo estrarre da ogni cosa: il sospetto veniale.

Le greguerías devono difendersi tutte insieme, per questo devono essere tante, costituire un panorama, non minutaglia.
La greguería è l’unica cosa che non ci rattrista, non ci fa musoni, oppressi e tumefatti mentre la scriviamo, perché l’autore nel comporla scherza e getta in aria la propria testa per poi riprenderla al volo.
La greguería, a volte, con un’allusione remota e geroglifica, con un’allusione tremendamente
criticabile, con una macchia di colore indefinibile, definisce tutto.

La greguería è la parte più casuale del pensiero e per scovarla bisogna percorrere sentieri da serpente, formica o tarlo, fino a quel preciso punto di casualità.
La greguería coniuga il verbo come niente, dialoga, si assenta, si umilia, singhiozza, fa smorfie, tira palline di pane come un bimbo che gioca a tavola, comincia a cantare, tace, prende un violino, 1o strimpella, gli dà una botta con 1’archetto, fa un gesto con la mano come quelli che i birichini disegnano sui muretti, apre un pianoforte azzimato e lo fa sussultare con uno svarione o una botta straziante, combina una diavoleria con il cappello di un signore serio che è in visita nell’ufficio del babbo, dà una pennellata, si china per terra nel giardino pubblico perché crede d’aver trovato un oggetto d’oro e raccatta la cosa luccicante, anche se si tratta della stagnola appallottolata d’un cioccolatino; regala l’idea di un dramma o di un romanzo, o lo spunto per impiccarcisi, e continua a correre e saltare come una palla di celluloide a strisce, con dentro un pallino da caccia.
La greguería è ultra-vertebrata, e sta bene nei libri e sui giornali, e si sistema da sola nelle macchine delle tipografie, cercandovi e trovandovi la sua scanalatura precisa.
La greguería è l’ameba della novità.
La greguería è un’occhiata fruttifera che, sepolta nella carne, ha dato la sua spiga di parole e di realtà.
La greguería è anche qualcosa di simile all’oliva farcita, proprio come quelle cui si cava il nocciolo sostituendolo con un’acciuga.

Il mio raccolto di greguerías non è costante. Sgorgano solo a volte, raramente, perché per cogliere una greguería bisogna trovarsi in uno stato di grazia profano e difficile. Non si muovono in branchi. Non possono mai essere ricercate. Bisogna aspettarle passeggiando o seduti. Nemmeno un passo volontario verso l’immagine.
Acchiappamosche della greguería, mi tocca trascorrere molte ore con le braccia tese a far gesti come quelli dei segnalatori su una pista d’atterraggio.
Candore, azione e controluce, e via a cercare una nuova vena, scavando gallerie sottoterra e scendendo talvolta come un palombaro sul fondo del mare per non trovare magari altro che mani di pianisti morti.
Passano gli anni e questo libro che sembra lo stesso va cambiando. Non sono un recidivo. Ci sono molte greguerías di cui mi sono pentito. Molte sono diventate vecchie, benché io sappia com’erano giovani a suo tempo: con quanta rapidità il mondo perde la sua innocenza!
Alcune me le ha rese inutili il cinema nel corso degli anni, ma anche se triste è accettabile questa caducità dell’immagine quando è ormai ora che la veda materializzata il grosso pubblico.

Si è detto che faccio di una gabbietta da grilli una cattedrale, che le mie greguerías sono letteratura in ostie, che sono un omeopata, che la posterità dovrà ricostruirmi come se si trattasse di un “puzzle”.
Ma affermare quanto c’è di triviale nell’uomo vuol dire indurlo a non essere rigoroso, sleale, malvagio, fanatico o inalterabile per nessun motivo, né di fronte a nulla. Accettare la banalità vuol dire diventare transigente, comprensivo, accontentabile. Non c’è niente di più risolutivo della trivialità trovata, coltivata, compresa e assimilata fino alla temerarietà.

Chesterton ha detto: «Il telescopio rimpicciolisce l’universo. E’ il microscopio che lo ingrandisce». Ciò giustifica il lavoro di chi osserva le cose infime e istantanee.
Le piccole ossessioni del presente, le insistenze del mondo, acquistano valore vitale nelle greguerías.
Reagire contro il frammentario è un’assurdità, perché la costituzione del mondo è frammentaria, il suo fondo è atomico, la sua verità è dissolvenza.
Ci sono fiori d’aria che bisogna raccogliere, medaglie che si ricevono dagli alberi passando, orologi che il vento ruba e poi ci infila in tutta fretta nelle tasche mentre scappa… Tutto questo sono greguerías.

Ramón Gómez de la Serna