1) Tra i molti generi letterari, cosa determina in te la predilezione per la “forma breve”
e per l’aforisma in particolare?
Direi una sorta di vocazione alla sintesi, alla ricerca dell’essenza, della massima concentrazione possibile di significato. Non è un caso che scriva anche poesia (poesia e scrittura aforistica sono per quanto mi riguarda, cioè per la mia storia, nate insieme), e che non abbia invece alcuna attitudine per la costruzione narrativa. Del resto, nel discorso narrativo stesso, sono non di rado proclive ad innamorarmi dei particolari, dei frammenti. Una pagina, un periodo, una frase, che non mi lasciano più, e che finiscono quasi per avere una vita autonoma rispetto al corpus generale.
2) Quando è avvenuto il tuo primo incontro “fatale” con l’aforisma? E da cosa sei stato indotto a cimentarti in questo genere?
Non saprei evocare un momento preciso, ma di certo l’aforisma fa parte del mio destino. All’aggettivo fatale della domanda quindi toglierei senz’altro le virgolette. Quanto alla seconda domanda, cosa induce a scrivere? io dico una necessità profonda. Si scrive per necessità, non per scelta. Vorrei comunque mettere in luce una sorta di specifico movente morale (non moralistico) che caratterizza la produzione aforistica.
3) Quali sono stati i grandi aforisti della letteratura classica che più ti sono congeniali e che ti hanno eventualmente ispirato? Ci sono uno o più aforismi sull’aforisma che secondo te definiscono al meglio questo genere?
Ho inevitabilmente letto molta letteratura aforistica, benché non sia certo uno di quelli che prima legge e poi si mette a scrivere. Tra l’altro ritengo che un aforista, così come un poeta o un romanziere non dovrebbero concentrare troppo le loro letture sul genere a loro congeniale, ma spaziare, esplorare. Comunque farò i primi nomi che mi balenano alla mente, quattro dai secoli passati: Pascal, Chamfort, Schopenhauer, Nietzsche; e quattro dal Novecento, secolo di cui siamo tutti figli e che in un certo senso, pur essendo finito, non smette di finire: Kraus, Cioran, Gomez Davila e il nostro Flaiano. Ci sono molti straordinari aforismi che definiscono l’aforisma, cioè meta-aforismi (io stesso ne ho scritti diversi). Eleggo Kraus che cito a memoria quindi chiedo venia se dovessi sbagliare un segno di interpunzione: “L’aforisma non coincide mai con la verità. O è mezza verità o è una verità e mezzo”.
E stralcio anche un frammento dallo Zarathustra nietzscheano: “le sentenze debbono essere vette; e coloro per i quali sono pronunciate debbono essere grandi e di alta statura”.
4) Ritieni che la letteratura aforistica contemporanea, in Italia, abbia dei rappresentanti in grado di raccogliere qualitativamente l’eredità dei nostri maestri del passato?
Questa è una domanda insidiosa, anche perché rivolta a un aforista! Non saprei. Certamente è con i grandi del passato, remoto o prossimo, che occorre sempre – e in ogni ambito – confrontarsi. A dispetto di tale aureo criterio, rilevo troppo spesso l’ansia fatua, un po’ sciocca, di tenersi al corrente, di aggiornarsi. Aggiornamento è una delle parole che detesto di più.
5) A cosa ritieni sia dovuto il calo d’interesse verso l’aforisma, nei tempi recenti, da parte del mondo editoriale?
Ritengo che vi sia, da parte del cosiddetto mondo editoriale, un calo d’interesse nei confronti dell’autentica qualità letteraria, comunque la si declini dal punto di vista del genere. Colgo l’occasione per raccontare un aneddoto emblematico: un poeta del quale non faccio il nome (mio amico, per inciso, da molti anni), oscuro, ermetico, tragico ma inopinabilmente notevole, potente, per certi versi e in certi momenti grandioso, si sentì rispondere da una importante (si fa per dire visti tanti suoi frutti…) casa editrice che il suo lavoro non interessava perché “troppo alto”. Non penso occorrano ulteriori chiose.
6) Esiste, a tuo avviso, una strada da percorrere perché l’aforisma torni a conquistare l’attenzione dei lettori, soprattutto quelli delle nuove generazioni? Quali azioni indicheresti?
In primis penso che il lavoro di uno scrittore sia scrivere e non preoccuparsi di conquistare l’attenzione di chicchessia. In secundis vorrei essere letto dai giovani ma anche, per dire, dai vecchi. Trovo cioè un po’ retorico questo discorso dell’“adescamento” dei giovani, per quanto insegni e l’insegnamento sia parte assolutamente fondamentale della mia vita. Comunque sì, esiste un’azione che può essere utile a tale scopo: scrivere bene.
7) A tuo avviso, l’aforisma può e deve distinguersi dalle varie forme di comunicazione “veloce” oggi tanto in voga come il tweet, lo slogan, la battuta, ecc…)?
Sì, assolutamente. In un tempo superficiale e mediocratico come il nostro, l’aforisma ha da mostrare il suo blasone, tutti i suoi quarti di nobiltà. Deve appartarsi e svettare. Capita di leggere, in rete ma non solo, sciocchezze invereconde spacciate per aforismi. Scrivere aforismi è anche questo: fare giustizia della banalità.
8) Ritieni che la Grande Rete possa aiutare la diffusione del buon aforisma o che, piuttosto, ne faciliti la degenerazione in forme superficiali e scorrette?
Internet è un moltiplicatore, in parte neutrale in parte no (sarebbe questo un discorso molto complesso). E la massa è, e sarà sempre, incline a recepire ciò che non è prezioso, originale, profondo. Questo è fatale; deve essere così. Ma se attraverso la rete si può raggiungere anche solo una persona – un singolo di Kierkegaardiana memoria… – che non sarebbe stato possibile raggiungere altrimenti, ecco che la rete,
questa nuova dea del nostro tempo, può assumere una valenza provvidenziale.
9) Pensi che la tua esperienza personale, quale autore di aforismi, sia stata fonte di maturazione letteraria, intellettuale, umana? Altrimenti, può esserlo in qualche modo?
Se ho ben compreso il senso della domanda, l’esperienza personale (l’esperienza impersonale o sovrapersonale dei mistici purtroppo mi manca…) costituisce naturalmente il fondamento della scrittura. Di ogni scrittura. Ma – e proprio io ho scritto qualcosa del genere – se si parte dall’esperienza fermandosi ad essa, rimanendovi ingabbiati, cioè non trasfigurandola, non conferendole risonanze anche universali oltreché inconfondibilmente personali, non andando oltre, tanto varrebbe non partire affatto.
10) Quali ritieni siano le migliori doti che deve avere un autentico aforista, oltre alla propensione per la sintesi?
Provo a dirne alcune: acutezza di sguardo; intelligenza agile; rapidità e repentinità di pensiero; moralità nel senso migliore della parola; e, segnatamente per me, senso del paradosso. Aggiungerei che un aforista vero deve avere una sua e soltanto sua visione del mondo. Un po’ come un filosofo.
11) Ti senti contrariato se un aforisma di tuo conio viene pubblicato in contesti di pubblica lettura senza che sia citata la sua paternità? In sostanza: secondo te dovrebbe davvero, un aforisma, essere – come sostiene Maria Luisa Spaziani – “cosa volatile, spontanea, che nasce come un fiore e non esige alcuna sigla di origine”?
Non soltanto mi sentirei contrariato, ma sarei altresì disposto ad adire le vie legali. Facezie a parte, mi sfugge il significato del precetto della Spaziani. Senza contare che l’aggettivo volatile non mi convince per nulla. Io gli aforismi tento di scolpirli nella pietra.
12) C’è una tua silloge, pubblicata o meno, alla quale ti senti più legato perché meglio ti rappresenta?
L’unica mia silloge che ha visto la luce è Aforismi per la fine del mondo. Potrebbe anche essere la prima e l’ultima (benché abbia già abbastanza materiale per un secondo libro). È che ho, per dir così, diversificato la produzione: un saggio monografico che evolvé molto tempo fa dalla tesi di laurea in “Storia della critica”, una rivista uscita a Firenze tra il 2003 e il 2015, un’antologia di scrittori italiani del Novecento, la silloge poetica, una raccolta di scritti sul cinema, e infine la summenzionata silloge aforistica. Lo dico perché questi cinque libri (e la rivista) si richiamano e si completano tra loro; com’è naturale che sia. Il libro di poesie e il libro di aforismi, essendo anche i più direttamente creativi, sono quelli che più mi rappresentano. E non potrebbero esistere, o meglio sarebbero come mùtili l’uno senza l’altro.
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Piero Buscioni, Nota bibliografica
Piero Buscioni è nato a Firenze il 6 dicembre del 1973 a un quarto a mezzanotte, ed abita tra Pistoia e Serravalle. Allievo del Liceo Classico pistoiese Forteguerri, si laurea con Marino Biondi, il Grande Romagnolo, presso la facoltà fiorentina di Lettere e Filosofia, in “Storia della critica e della storiografia letteraria”. Insegna, senza fissa dimora, da quasi tre lustri; lingua mortal non dice la magia che, fino ad ora, è stata per lui la scuola. Aforista, poeta e autore di saggi, collabora con “il Portolano”, e ha collaborato con “Paletot” fin quando la rivista è uscita. Ha anche scritto, tra l’altro, su “Nuova Antologia”, “Caffè Michelangiolo”, “Hebenon”, “La Clessidra”. Suoi aforismi sono stati scelti da Guido Ceronetti per il quotidiano “La Stampa”, e una sua poesia è stata inclusa da Roberto Mussapi in un florilegio apparso sui “Luoghi dell’infinito” che comprende anche alcuni grandi poeti del
nostro novecento.
Nel 2000, per Aleph, pubblica Il rabdomante delle acque di Siloe. Saggio su Arrigo Levasti; per Gli Ori escono l’antologia Tributo minimo al novecento italiano in sedici schegge di prosa (2004) e Parole per un altro amore. Scritti sul cinema, con prefazione di Marco Guzzi (2013). Nel 2009 esce il libro di poesie Fa’ luce ti prego fino all’anima (I Quaderni del Battello Ebbro). Nel 2003 ha fondato a Firenze la rivista “il Fuoco” (Polistampa), diretta fino al 2015, anno della sua estinzione. È tra i curatori del volume L’inno che lacera i cortili. Per i sessant’anni di Roberto Carifi. Nel 2012, con la silloge Breviario di scherno e pietà, vince il premio internazionale per l’aforisma “Torino in sintesi” (sezione inediti). Con altre due sillogi figura nell’antologia bilingue The new italian aphorists ( Charleston, USA, 2013) e nell’antologia italiana Geografie minime (Joker, 2015). Sempre per Joker esce, nel 2018, il libro Aforismi per la fine del mondo.
È il massimo ermeneuta al mondo di Maradona. Ha un cane di nome Plotino e un gatto di nome Frodo; Baggins di cognome.