Amedeo Ansaldi, Viaggio in Oriente con gli aforismi

Amedeo Ansaldi, Viaggio in Oriente con gli aforismi (trascrizione del discorso fatto a Cannero Riviera nel maggio 2017)

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Buongiorno a tutti, e grazie per essere venuti numerosi…
Se per caso qualcuno di voi era presente l’anno scorso in occasione del precedente incontro forse ricorderà che avevamo parlato della storia dell’aforisma in Occidente attraverso i maggiori interpreti di questo genere letterario, dal La Rochefoucauld a Nietzsche, da Pascal a Oscar Wilde, ecc.

Oggi, nei limiti di tempo che abbiamo (e che ci obbligheranno a qualche disinvolta, forse incauta semplificazione) guarderemo al di là dei nostri confini culturali, verso l’Oriente della Bibbia, il mondo islamico, la Cina, l’India, il Giappone. Accenneremo, sempre tramite citazioni aforistiche, a filosofie, religioni e modi di pensare molto diversi dai nostri, in qualche caso diametralmente opposti, parlando di fedi e dottrine non, ovviamente, in quanto verità rivelate, ma come fenomeni culturali di eccezionale interesse, sintomatici di visioni del mondo articolate e complesse. Senza trascurare i proverbi e la saggezza popolare.

Il nostro percorso parte, comprensibilmente, dal Vicino Oriente: vicino non solo in senso geografico.

Noi siamo abituati a pensare alla Bibbia, i cui libri ci sono bene o male familiari, come parte integrante e irrinunciabile del nostro bagaglio culturale e della moderna civiltà occidentale; in realtà, come sappiamo se non altro attraverso i racconti agiografici sulle persecuzioni dei primi cristiani, i nostri antenati romani vedevano le cose in un modo abbastanza dissimile. Per capire anzi quanto già lo spirito veterotestamentario fosse estraneo a quello dell’antichità classica basterà leggere certi passaggi tratti dalle Storie di Tacito (in particolare il libro V, 3-5) o dall’opera di Plutarco e altri importanti autori latini.

Venendo al punto cruciale, discriminante – quello intorno al quale, in ultima analisi, tutto, a nostro avviso, ruota – la Bibbia introduce nella storia umana un elemento di novità e originalità assolute: il monoteismo, ovvero la credenza in un Dio unico che presenta la caratteristica, eccentrica ag occhi di un romano, di esiliare nel campo della falsità e dell’errore tutto ciò che le risulta estraneo. Del resto, gli stessi termini implicitamente denigratori (‘incirconciso’, ‘idolatra’, ‘pagano’) con i quali il gentile (cioè il non-ebreo) vi viene designato non dissimulano un’insuperabile ripugnanza.

“Nell’antichità (classica)”, come sottolinea Nietzsche, “un dio non era la negazione o la bestemmia di un altro dio.” E non vi erano propugnate verità assolute. Nei poemi omerici, per es., alcuni dèi parteggiano per Ilio assediata, altri si schierano a fianco degli Achei; Atena protegge con sororale trepidazione l’eroe Odisseo, Poseidone – padre toccato negli affetti dopo l’oltraggio dell’accecamento del ciclope Polifemo – persegue con ostinazione la sua rovina. Nel mondo greco la sfera divina è dinamica, contraddittoria, sottoposta anch’essa ai mutevoli capricci del caso e della fortuna: non esiste una verità incontestabile – nemmeno per gli dèi, nemmeno per Zeus.
Alla visione politeistica corrispondevano pluralità di esperienze e di narrazioni, vivida curiosità culturale, una vastità di orizzonti e apertura mentale che oggi appaiono remote e irrecuperabili. Con il fondamentale e fatale comandamento “Non avrai altro Dio all’infuori di me”, il monoteismo si lega per l’eternità a un solo e unico racconto, una visione delle cose univoca ed egemone, diventa insomma una verità rivelata e, in quanto tale, indiscutibile. Esemplificativo, in questo senso, il salmo 119 (ma se ne potrebbero citare non meno a proposito molti altri): “Sta in eterno, oh Signore, la tua parola, immobile come i cieli.” In sostanza, il verbo biblico – come poi tutti quelli monoteisti che ne deriveranno nei secoli successivi – si propone come definitivo e inalterabile nel tempo. Molte citazioni dai Salmi riscontrano un tono analogamente ultimativo, sintomatico del principio fondante, sottinteso del monoteismo: “Procurano a sé grandi mali coloro che van dietro a numi stranieri.” (16)
“Non sia frammezzo a te altro Dio, non prostrarti a nume straniero!” (81)
“Si vergogni chiunque adori degli idoli, chi si vanti dei propri simulacri!
Prostratevi, oh tutti, al Signore!” (97)

Nelle religioni antiche le varie divinità non si escludevano, si integravano bensì l’un l’altra in una spontanea e complessa varietà di culti. Il monoteismo ebraico rappresenta (con l’effimera, eccezionale parentesi del faraone Amenofi IV, l’eretico Akhenaton) un fenomeno inedito nella storia dell’umanità, una ‘contro-religione’ (secondo la definizione data dall’eminente egittologo Jan Assmann) che delegittima in modo esplicito e coerente tutte le altre credenze, stabilendo il divieto perentorio di adorare dèi diversi dai propri. La ‘distinzione mosaica’ (sempre Assmann) così operata impone del resto un’alternativa secca, tertium non datur. Yahweh, Signore degli Eserciti, è un “Dio geloso e vendicatore” (Na 1, 2). La consegna della Torah alla sua massima guida segna per il popolo di Israele (e in prospettiva storica per quasi metà dell’umanità) uno stacco netto, una cesura radicale rispetto al passato politeista (o enoteista, o monolatrico…).
Il monoteismo delinea un mondo fortemente polarizzato, nel quale vengono introdotte distinzioni insuperabili fra ‘amici’ e ‘nemici’, ‘detentori della verità’ e ‘divulgatori di menzogna’: gli ebrei-i gentili; i cristiani-i pagani; i musulmani-gli infedeli. La questione religiosa si pone, a partire da Mosè (e poi con Gesù e Maometto), nei termini inediti, e un po’ eccentrici, di vero e di falso.

Per i ‘pagani’ la violenza era un strumento idoneo a conquistare e a conservare il potere, da usarsi, ovviamente, senza particolari scrupoli; mai, però, un modo per imporre una verità assoluta che essi, del resto, si astenevano dal propugnare. Se i popoli politeisti (in primis l’Impero Romano, una dittatura tra le più ferree e spietate che la storia ricordi) hanno compiuto carneficine ed efferatezze innumerevoli, i monoteismi hanno aggiunto alla già lunga catena di orrori della storia umana un anello, quello delle guerre di religione, forse il più cruento e inestirpabile, se consideriamo che la loro furia distruttiva, della quale abbiamo tragiche testimonianze ancora nel XXI sec., è in grado di resistere anche alle considerazioni dettate dal pragmatismo politico e dalla strategia militare.
Ecco alcune citazioni tratte dai Salmi:
“Spezza il braccio dell’empio e dell’iniquo, sperdine la malizia e più egli non sia.” (9)
“Li sterminai come polvere al vento, li schiacciai come il fango nelle strade.” (18)
“La prole degli empi andrà schiantata.” (37)
“Con te ci scagliamo sui nemici, nel tuo nome prostriamo chi ci assale.”(44)
“I ribelli a Dio si curveranno, morderanno la polvere i suoi nemici.” (72)
“Riversa, oh Signore, il tuo sdegno sulle genti che non riconoscono te, e
sopra i vari loro regni, che non invocano il tuo nome.” (79)
“Scompaiano dal mondo i peccatori e gli empi, fino all’ultimo di loro.” (104)
“Sian coperti d’onta i miei nemici; li avvolga, come un manto, il loro stesso obbrobrio.” (109)
Principi che sono puntualmente ribaditi in altri libri sapienziali:
Nella Sapienza:
“Il culto di idoli vani è il principio, la causa e il colmo di ogni male.” O in Siracide (Ecclesiastico)
“Getta il tuo timore, oh Dio, su tutte le nazioni; stendi la tua mano sui popoli stranieri, che vedano la tua potenza… affinché sappiano anch’essi, come lo sappiamo noi, che non vi è altro dio all’infuori di te.”
“Risveglia la tua ira e versa il tuo furore, opprimi l’avversario e annienta il nemico.”

Nei rapporti fra civiltà diverse, i politeismi si mostrano ben altrimenti duttili, potendo molte loro divinità risultare ‘intercambiabili’, per così dire ‘trasponibili’ nell’ambito di altre religioni (si pensi a greci e romani) a tutto vantaggio dell’integrazione culturale. Finché le credenze si fondavano su elementi naturali (il sole e la luna, la terra e il cielo, l’acqua e il fuoco, il succedersi delle stagioni, ecc.) essi erano facilmente traducibili, in quanto potevano essere ricondotti a esperienze elementari comuni all’intera umanità. I monoteismi, che si pongono ciascuno come unico culto autentico, appaiono invece strenuamente auto-referenziali con rimandi esclusivi al mondo chiuso dei propri sacri testi.

E a proposito di libri e di parole, non è forse da sottovalutare un espediente ‘grammaticale’ che, per assuefazione, può facilmente sfuggire alla nostra attenzione: nei politeismi ogni dio ha un proprio nome (Giove, Venere, Marte…), nei monoteismi la divinità resta rigorosamente anonima; si chiama, appunto, semplicemente ‘Dio’, con questo sottintendendo a priori che ce n’è una sola, e che una seconda è virtualmente impensabile. L’educando, nel momento stesso in cui impara a esprimersi, è posto di fronte al fatto compiuto che l’ente supremo sia un’entità che, in mancanza di qualsiasi concorrenza, può permettersi il lusso dell’anonimato.

Per loro natura i monoteismi, sedicenti depositari dell’unica verità esistente, non mostrano alcun serio interesse alla conoscenza e allo studio delle credenze poste al di fuori del loro rigoroso perimetro, anzi questa eventuale – curiosità viene esplicitamente scoraggiata e osteggiata. Scrive per es. Tertulliano, autorevole apologeta cristiano del II-II sec.: “Dopo la venuta di Gesù Cristo, noi non abbiamo bisogno di curiosità.”

La stessa nozione di tolleranza – il reiterato invito alla tolleranza che tanto spesso ricorre, per es., nei Vangeli e nel Corano, e alla quale ascoltiamo tutt’oggi quotidiani appelli pubblici – ha corso quasi solo in ambito monoteista. Il contrasto è dovuto probabilmente al fatto che nel campo politeista non vi è nulla che sia considerato intollerabile a priori, e quindi nessuno spazio per un principio che ai romani doveva apparire quanto meno curioso, quando non empio e ispirato da odio verso il resto dell’umanità (da cui l’accusa di ‘ateismo’, che a noi può sembrare paradossale, della quale furono spesso oggetto le prime comunità cristiane).

Era inevitabile che il concetto del Dio unico facesse dei monoteismi dei discorsi privi di possibilità di sviluppo. La storia attesta con tragica dovizia di esempi quanto, una volta che si fossero imposti come dottrina ufficiale, riflettere liberamente sui loro postulati abbia esposto per secoli, e in qualche misura ancora oggi esponga, al rischio di incorrere nel peccato di eresia (o di apostasia) e nella conseguente persecuzione. I testi monoteisti, al contrario di quelli politeisti, sono detti ‘libri sacri’; il loro carattere, appunto, di sacralità, esclude che possano essere posti in discussione, o addirittura smentiti. Costituiscono l’essenza del verbo divino, e in quanto tali sono immutabili, definitivi, validi nei secoli dei secoli; hanno carattere vincolante e anche solo pensare di esularne è empietà.

Detto questo, l’Antico Testamento (e mi limito qui appena ai libri sapienziali, e cioè: Giobbe, Salmi, Proverbi, Ecclesiaste [ovvero Qohelet]), Cantico dei cantici, Sapienza ed Ecclesiastico [altrimenti
chiamato Siracide]) è uno dei massimi capolavori della letteratura universale e, venendo al punto che ci preme in questa sede – appunto gli aforismi – stupende massime di saggezza vi sono disseminate un po’
ovunque. Eccone un succinto repertorio:
Da Giobbe:
“Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore.”
“Se da Dio si accetta il bene, il male non si dovrà allora accettarlo?”
“Non i longevi, poiché tali, possono esser detti savi.”
Dai Salmi:
“Ricorda che ognora ti oltraggia lo stolto.” (74)
“La pietra respinta dai costruttori è divenuta la pietra angolare.” (118)
Dall’Ecclesiaste, il più sconsolato e ‘moderno’ degli autori biblici, modello per generazioni di aforisti:
“Ho veduto tutte le cose che si fanno sotto al sole ed ecco il tutto è vanità e un inseguire il vento. Ciò che è storto non lo si può raddrizzare, e quel che manca non lo si può contare.”
“Ciò che è stato sarà, e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto al sole.”
“Né del savio né dello stolto rimane alcun ricordo nel mondo, e nei giorni avvenire tutti e due saranno dimenticati.”
“Quale vantaggio ha il savio sullo stolto? Non vanno forse entrambi alla stessa dimora?”
“Tutti i fiumi se ne vanno al mare e il mare non si piena.”
“Il tempo e il caso si frappongono a tutto.”
“Uno sbaglio solo fa perire un gran bene.”
Dalla Sapienza:
Dinanzi a te il mondo intero è come un atomo sulla bilancia, come una goccia di rugiada che al mattino si posa sull’erba.
Dall’Ecclesiastico:
“La rena dei mari e le gocce della pioggia, e i giorni dei secoli, chi mai potrà contarli?”
“Alla sventura dell’orgoglioso non c’è rimedio perché porta in se stesso la radice del suo male.”
“Non invidiare la gloria del malvagio perché tu non sai ancora quale sarà la sua fine.”
“Chi subito concede la sua fiducia è d’animo leggero.”
“Lo stolto ha il cuore sulle labbra, il savio ha la bocca nel cuore.”
“Il lutto per un morto dura sette giorni, ma per uno stolto dovrebbe continuare per tutta la vita.”
“La verità ritornerà a quelli che la praticano.”
“Una vita felice dura un numero di giorni, ma un buon nome rimane per secoli.”
“Dio è in ogni cosa. Dove troveremo la forza di dargli la lode dovuta?”
“Come le foglie spuntate su un albero verdeggiante ora cadono e ora sbocciano, così son le generazioni della carne e del sangue, una muore e l’altra nasce.”
Ma soprattutto il libro dei Proverbi, improntato a uno spirito fortemente sentenzioso, costituisce una piccola miniera di aforismi:
“Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza per non divenire anche tu simile a lui; rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza perché egli non si creda saggio.”
“L’empio rimane prigioniero delle sue stesse colpe, ed è preso al laccio dei suoi peccati.”
“Non tornano utili i tesori di male acquisto.”
“Qualsiasi stolto sa fare litigi.”
“Dolce è per l’uomo il pane della frode, ma poi ha la bocca piena di sabbia.”
“Nuvole e vento, ma niente pioggia, tali son belle promesse non mantenute.”
“Cantar canzoni a un cuore afflitto è come spargere aceto su una piaga.”
“Chi scava la fossa ci casca dentro, e chi rotola un masso gli viene addosso.”
“Sincere son le busse di chi ama, minacciosi i baci di chi odia.”
“Come un volto non è uguale all’altro, così differiscono i cuori degli uomini.”
“Chi tiene vie tortuose in qualcuna cadrà.”

Sempre in ambiente israelitico operò il dottore talmudico Hillel (che taluno – es.: Renan – suppone essere stato maestro di Gesù, data anche la straordinaria coincidenza di detti, sentenze, precetti, ecc.), autore di innumerevoli aforismi tramandatici dalla tradizione rabbinica (alcuni di questi li ritroviamo, quasi identici, nel Vangelo). Ne cito almeno un paio:
“Ogni amore che dipende da qualche cosa, quando la cosa cessa, cessa anche l’amore; ma l’amore che non dipende da alcuna cosa non finisce mai.”
“Se non sono io per me, chi è per me? ma se anche sono per me, che cosa sono? E se non ora, quando?”

Venendo ai Vangeli, un testo che noi tutti conosciamo (o dovremmo conoscere – se non per devozione, almeno per curiosità intellettuale), è probabile che Gesù, al di là della leggenda neotestamentaria, sia stato il più originale e brillante interprete di una cultura assai viva nella Palestina del I sec., cioè in una terra e un’epoca di eccezionale fermento, sature di vaghe attese messianiche che si intrecciavano con l’acceso indipendentismo degli Zeloti e anelante, anche (es.: la setta degli Esseni), a una rilettura dei testi sacri in senso più spirituale e meno formalista rispetto ai Farisei e ai Dottori della Legge. La Buona Novella predicata da Gesù è venuta, come sappiamo, non già ad abolire, ma a riformare la legge mosaica, a mitigarne il sinistro rigore. Anche il Nuovo Testamento è una miniera di aforismi, mi limito a citarne qualcuno, del resto sono piuttosto familiari a chi sia stato educato cristianamente (da segnalarsi, in particolare, il celebre e bellissimo Sermone della Montagna, contenuto in Mt da 5,1 a 7,28):
“Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio.”
“Il vento soffia dove vuole e tu ne odi il suono, ma non sai donde viene e dove va. Così è di chiunque è nato dallo Spirito.”
“Se io vi ho parlato delle cose della terra e non credete, come crederete se vi parlo delle cose del cielo?”
“Un uomo non può ricevere nulla, se non gli è stato dato dal cielo.”
“Chiunque beve dell’acqua di questo pozzo avrà sete di nuovo, ma chi berrà l’acqua che io gli darò non avrà più sete in eterno.”
“Nessuno è profeta in patria.”
“Non hanno bisogno del medico i sani, ma gli ammalati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.”
“Neppure per la tua testa non giurare, perché non puoi fare bianco o nero un solo capello; sia invece il tuo discorso: sì, se è sì; no, se è no; quel che si dice in più viene dal maligno.”
“Non opponete resistenza al malvagio: anzi a chi ti schiaffeggia sulla guancia destra porgi anche la sinistra; a chi vuole citarti in giudizio per prenderti la tunica, lascia anche il mantello; se uno ti costringe ad andare con lui per un miglio, va’ insieme con lui per due.”
“Il Padre vostro fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi e manda la sua pioggia sopra i giusti e sopra gli ingiusti.”
“Quando fai elemosina non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, affinché la tua elemosina rimanga segreta.”
“Non giudicate, per non essere giudicati; perché con quel giudizio col quale giudicate sarete giudicati.”
“Non gettate perle ai porci!”
“Sforzatevi di entrare dalla porta stretta!”
“Dai loro frutti li potrete riconoscere. Si colgono forse grappoli dalle spine o fichi dai rovi?”
“A chi ha sarà dato, e sovrabbonderà, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.”
“Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate prudenti come serpenti e semplici come colombe.”
“Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nel fosso.”
“Chi fra voi è senza peccato scagli la prima pietra.”
“Se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le faccio, anche se non volete credere a me, credete alle opere.”
“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.”
“Se il mondo vi odia, pensate che ha odiato me prima di voi.”

Mantenendoci per ora in ambito monoteista, come sappiamo dal VII sec. d.C. in poi il Medio Oriente e l’Africa Settentrionale entrarono per sempre nella sfera d’influenza dell’Islam e intere popolazioni si convertirono alla fede coranica. Senza entrare nell’ambito, abbastanza complesso e delicato, dei suoi sacri testi, che non hanno trovato interpretazione unanime, diremo che la civiltà musulmana ha prodotto nei secoli, insieme a tanti importanti progressi (per es. nel campo delle scienze), vivaci raccolte di sentenze, aforismi, detti memorabili, ispirati sempre a esperienze di vita vissuta, che rivelano non di rado un modo spregiudicato e pragmatico, elementare, di affrontarle, un po’ com’è nel clima delle favolose Mille e una notte (anche se, giova ricordarlo, questa straordinaria raccolta di novelle deve altrettanto allo spirito parigino, che la tradusse e in qualche misura la reinventò, che a quello arabo):
“L’amore… comincia come uno scherzo e finisce come una cosa seria.”
“Evita di metterti fra le due macine del mulino!”
“Beato il cieco, che possiede una fantasia sconfinata, un pensiero che si estende al di là di ogni legame. Mentre chi vede, scopre sempre catene e ostacoli in tutto ciò che la vista gli offre.”
“Bacia la mano che non puoi mordere!”
“Non è quando si è aiutati dagli amici che si è veramente uomini, ma quando lo si è dai nemici.”
“La parola che trattieni tra le labbra è la tua schiava, quella che pronunci inopportunamente è tua padrona.”
“Anche se siete sapiente consideratevi ignorante per non privarvi del vantaggio di poter imparare!”
“Temi il nobile se lo tratti con disprezzo; temi l’uomo di basse origini se lo tratti con onore.”
“Temi colui che ti innalza al di sopra del tuo merito.”
“Si dice che un capello separi il falso dal vero.” (Omar Khayyam)
Nell’arcipelago malese è fiorente una cultura orale che ha dato luogo a un’infinità di proverbi:
“Piuttosto che fare amicizia con uno stupido, meglio essere nemici di uno intelligente.”
“Dove muore la formica, se non nello zucchero?”
“Una mano fa cinque e due mani fanno dieci; ho piantato un melograno, perché ho raccolto una zucca?”
“Chi parla tanto, facilmente finirà col dire bugie.”

Mentre in quella che oggi è l’Europa e in Medio Oriente si imponevano progressivamente le religioni e visioni del mondo cui abbiamo sopra accennato (e che ancora influenzano in profondità il nostro modo di vedere e di affrontare le cose), in Oriente si affermavano filosofie che per certi versi si pongono agli antipodi rispetto ad esse; seguiremo, in particolare, il cammino del buddhismo e, più in generale, della filosofia indiana attraverso vari Paesi (nel suo percorso India-Cina- Giappone), sottolineando tramite citazioni aforistiche le loro differenze rispetto a monoteismi e verità rivelate, magari accennando anche a certe loro analogie con la filosofia occidentale antecedente Platone e il cristianesimo (segnatamente i presocratici).

Quella cui gli indiani sostanzialmente mirano è una conoscenza non dualistica, che sia cioè in diretto contatto con la realtà così come essa si presenta anteriormente a qualsiasi giudizio etico che possiamo darne. Quelle contrapposizioni (per es. fra bene e male, giusto e ingiusto, ecc.) che noi vi cogliamo sono secondo gli indiani il mero frutto di pregiudizi morali, un grave tralignamento dal retto pensiero.
Nel Dhammapada, una raccolta di 423 aforismi che costituisce il nucleo fondamentale della dottrina buddhista, è scritto esplicitamente: “Chi ha da sé rigettato il bene e il male, questi in verità si chiama un saggio.” C’è, nella filosofia orientale (aspetto che noi fatichiamo a comprendere, meglio: ad accettare) un ripudio e un sospetto tenaci nei riguardi di qualsiasi affermazione indimostrabile o verità assoluta; perciò, nel descrivere un qualunque fenomeno, l’indiano dirà sempre: “Le cose stanno così… se osservate sotto quella certa angolazione.

La visione del mondo del buddhista è improntata a un fermo e intransigente relativismo. Interrogandosi su se stesso e sul ‘senso’ della propria esistenza, l’indiano ragiona più o meno in questi termini (semplificando): “un giorno sono venuto alla luce perché mio padre e mia madre si sono conosciuti, e anche loro sono nati perché i loro genitori si erano a loro volta incontrati, e così via ripercorrendo a ritroso, attraverso schiere di trisavoli, un’interminabile catena di causa-effetto (la Ruota della Vita e della Morte, che l’induismo chiama samsara) che ci potrebbe riportare fino al giorno della Creazione. Alla nostra comparsa nel mondo ha concorso un insieme di circostanze innumerevoli, e sarebbe bastato che una sola di queste non si fosse verificata perché di noi non si sapesse mai nulla.

In realtà, il buddhismo si spinge più in là: postula che noi pensiamo certe cose (o il loro equivalente contrario, che è la stessa cosa), nutriamo determinate convinzioni, abbiamo avversioni e preferenze speciali perché siamo nati in una certa epoca storica, in una certa area geografica, siamo partecipi di un determinato clima culturale, ci sono successe determinate cose piuttosto che altre, e perfino i nostri sentimenti più radicati sono sottoposti a condizionamenti e sollecitazioni tali da non poter essere considerati altro che dipendenti da cieca casualità. Il maestro zen Ma-tsu scrisse in un sutra (come sono chiamati gli aforismi indiani) riguardo alla propria persona: “E’ soltanto un gruppo di elementi che convergono a formare questo corpo. Quando esso ha origine, soltanto questi elementi hanno origine. Quando finisce, soltanto questi elementi finiscono. Ma quando questi elementi sorgono, non dire: ‘Io sto sorgendo.’ E quando finiscono non dire: ‘Io sto finendo.’.” Dhammapada analogamente sostiene: “Tutti gli elementi della realtà sono privi di essenza propria”, traendo la propria esistenza da altre cose che ne sono a loro volta la causa, nel quadro della ‘produzione condizionata’ che regola la comparsa di qualsiasi cosa, essere vivente o fenomeno. Lo stesso aggregato umano – la persona nella quale ognuno di noi si identifica – come abbiamo visto altro non è se non una successione di stati di coscienza dettati da fattori esterni, fondata su automatismi, psichismi, parvenze fisiche di carattere contingente. In buona sostanza, la nostra individualità è una mera illusione, condizionata da pressioni culturali, sociali, perfino climatiche delle quali il più delle volte non ci rendiamo affatto conto, avendole subite fin dalla nascita; costituendo l’ambiente stesso nel quale noi siamo cresciuti. Il nostro Io, così come ce lo rappresentiamo, è un concetto pretestuoso, la cui trama è intessuta dall’eterna cecità del caso.
E’ quindi – quella buddhista – una visione fortemente deterministica della realtà, prodotto di una logica serrata e inesorabile (che poi è quella del suo maggiore filosofo, Nagarjuna). La persona finisce inevitabilmente per chiedersi: io sono un semplice aggregato fortuito, il prodotto della congiunzione di innumerevoli circostanze contingenti, il mero contenitore di tanti fattori casuali, oppure – nascosto, dimenticato, sepolto – al di sotto di questa montagna di detriti (fatta di pulsioni culturali, sociali, morali ‘esterne’) esiste un io autentico, l’atman, dotato di natura propria, non contingente, non condizionato, non coeffettuato e non già un semplice prodotto di elementi disparati e accostati gratuitamente l’uno all’altro?
Dhammapada ammonisce: “Contempla questo mondo come una bolla d’acqua; guardalo come si guarda a un miraggio.” Presa coscienza del fatto che la realtà nella quale noi siamo immersi è priva di essenza propria ed è transitoria e dolorosa – costituisce un inganno universale e costante dei nostri sensi – il saggio si impegna nel conseguimento di nirvana, e cos’è dunque: nirvana? Il percorso verso nirvana consiste nello smagliare, e infine spezzare, affrancandosene per sempre, l’inesorabile catena di causa-effetto (appunto, samsara, l’Oceano delle nascite e delle morti) che è alla base di tutte le illusioni che nutriamo. Il nirvana coincide con la fine di ogni trasmigrazione, e non è condizionato né coeffettuato come il mondo empirico.

Anche il Mahatma Gandhi, padre dell’indipendenza indiana, nei suoi noti aforismi insiste sulla necessità di auto-annullamento come tappa preliminare verso la vera conoscenza:
Non riusciremo a vincere il Male che è in noi finché non ci ridurremo a nullità”.
“Dio non chiede niente di meno che la rinuncia a se stessi come prezzo per la sola vera libertà che valga la pena di possedere.”
“Chi non abbia un notevole senso di umiltà non può trovare la verità. Se vorrete nuotare nell’oceano della verità, dovrete ridurvi a nullità.

In questa prospettiva appare evidente il valore strumentale e la presunzione imperdonabile di ogni concetto, opinione, ideale, perfino di ogni affetto, mere costruzioni immaginarie che costituiscono altrettanti aspetti di quella falsificazione progressiva e inarrestabile della realtà che risponde al nome di samsara, ovvero determinismo, casualità, contingenza. Il filosofo buddhista dimostra in modo puntuale, circostanziato, inesorabile la falsità, l’insussistenza, la relatività, l’intrinseca contraddittorietà di tutto il mondo empirico circostante, che viene respinto in blocco. E’ scritto in Dhammpada: “’Questi figli sono miei, questa ricchezza è mia’: così almanaccando lo stolto si inganna. Ma egli stesso non appartiene a se stesso, quanto meno i figli, quanto meno la ricchezza!” Il saggio cinese Hui Neng sottolinea la natura illusoria della realtà: “Non vi è albero né specchio lucente, poiché tutto è vuoto: dove potrà mai posarsi la polvere?

Uno degli aspetti cruciali della filosofia buddhista (e più in generale indiana), che noi stentiamo a giustificare e che dà luogo a infiniti fraintendimenti da parte dell’Occidente, è il ripudio di tutte le opinioni e in particolare dei concetti dualistici di bene e male, che per l’indiano rientrano a pieno titolo nell’ambito di samsara in quanto interpretazioni gratuite, soggettive della realtà.
“Come l’ape raccoglie il succo dei fiori, senza danneggiarne profumo e colore, così dimori l’asceta nel villaggio”, è un invito, contenuto nel Dhammapada, a non prendere parte alle contese che riguardano il vivere dentro samsara. Buddha in persona ammonisce (nel sermone di Kotigrama): “Chi ha sana la mente non compete col mondo né lo condanna.” La raccolta di poesie zen Zenrinkushu ricorda: “Arriviamo a mani nude, e a mani nude ce ne andiamo.” E Hui Neng asserisce che: “Il saggio non pratica alcuna virtù.
Che queste intuizioni abbiano un valore universale e non siano una prerogativa esclusiva del buddhismo lo dimostra il fatto che siano state condivise da filosofi estranei all’ambiente indiano (es.: i presocratici). Un esempio fra tutti, il maestro sufi (il sufismo è la corrente mistica dell’Islam, i cui interpreti sono stati non di rado perseguitati e giustiziati come eretici) Jalaluddin Rumi (XIII sec.): “Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato, c’è un campo. Io ti aspetterò laggiù.
L’ascesi indiana non sviluppa un’etica fine a se stessa, tende bensì a superare l’opposizione dialettica fra ‘bene’ e ‘male’.
Anche Sri Aurobindo, il maggiore filosofo indiano moderno, che in gioventù affiancò Gandhi nelle lotte indipendentiste prima di consacrarsi interamente alla meditazione, insiste sul ripudio delle opinioni e delle distinzioni:
Quando avevo la ragione separatrice, molte cose mi ripugnavano. Più tardi, quando la perdetti nella visione, cercai a lungo nel mondo il brutto e il ripugnante, e non riuscii più a trovarli.
“Il cristiano e il vishnuita lodano il perdono, ma io chiedo: ‘Che cosa devo perdonare, e a chi?’”
Sono veri solo quei pensieri il cui contrario è anche vero, a tempo e luogo; i dogmi indiscutibili sono il più pericoloso genere di menzogna.
L’egoismo uccide l’anima, distruggilo; abbi cura però che il tuo altruismo non distrugga l’anima altrui.
Non preoccuparti del tempo o del successo. Recita la tua parte, sia che riesca sia che fallisca.
Quando senti un’opinione che non ti piace, studia e scopri la verità che essa contiene.
Niente è piccolo agli occhi di Dio; che niente sia piccolo ai tuoi occhi. Egli dedica tanta fatica e tanta energia divina alla formazione di una conchiglia quanta ne dedica alla formazione di un impero.
Sostiene Shin Jin Mei, maestro zen: “Basta eliminare dal mondo oltre che l’odio anche l’amore, perché subito la comprensione appaia spontanea e luminosa come la luce del sole che filtra in una caverna.

Da notare che a questo ripudio indiscriminato non si sottrae la stessa dottrina buddhista, l’attaccamento alla quale non farebbe che alimentare il meccanismo perverso di samsara. “Se incontri il Buddha per strada, uccidilo”, suona l’esortazione del saggio cinese Huang Po. Mentre Nagarjuna sostiene: “La vacuità, han detto i Vittoriosi, è eliminazione di tutte le opinioni. Coloro poi per cui anche la vacuità è un’opinione, questi li han detti inguaribili.” Quindi: nessun testo sacro; nessuna verità assoluta; e maestri con funzione solo transitoria. Buddha stesso non mancava di avvertire: “Sono una zattera che serve a raggiungere l’altra riva del fiume. Dopo non servo più a nulla.” Anche questo forse è un
aspetto meritevole di un più serio e attento vaglio: i libri sacri del monoteismo si pongono come punti di riferimento irrinunciabili ed eternamente validi; il Buddha non chiede altro, se non di essere superato.

Ora, si potrebbe essere tentati – malinteso fondamentale – di accusare il buddhista di lassismo, passività o addirittura di nichilismo, dal momento che la sua filosofia è esclusivamente distruttiva, negatoria, e in effetti la sua dottrina può risultare fuorviante e pericolosa, ove cada in orecchi volgari, inclini a conclusioni sommarie e affrettate, ingenerando, per es., un fatuo e insulso quietismo; in realtà, risponde al vero l’esatto contrario. L’occidentale arriva al nulla attraverso la pienezza (cioè tende ad aggiungere: desideri, beni materiali, opinioni, valori morali, affetti, ideali, per stringere alla fine, come suol dirsi, un pugno di mosche). L’orientale compie il percorso esattamente opposto: attraverso una condizione di vacuità progressivamente conseguita – attraverso una graduale consapevolezza della sussistenza puramente strumentale di tutte le cose che compongono il miraggio-mondo – approda al tutto. Curiosamente, a conclusioni non dissimili era giunto l’ultimo scolarca bizantino di Atene, il neo-platonico Damascio (V-VI sec. d.C.): “Il tutto è formato di ‘che’ [aggregati strumentali e illusori]. Di tutte le cose, infatti, ognuna, separatamente considerata, è un ‘che’, e dei ‘che’ saranno dunque esse anche insieme. […] Togli, uomo, non aggiungerci, questo ‘che’. Questo infatti ti impedisce di arrivare alla conoscenza, […] ma se tu togli il che e il quale, ecco che esso ti apparirà per quello che è.” L’illuminazione, ovvero il ricongiungimento dell’anima individuale (atman) con la realtà suprema (brahman, ossia “la realtà delle cose così com’è in se stessa, prima dell’intervento deformatore del nostro pensiero” [Raniero Gnoli]) costituisce un’esperienza che si pone al di là di qualsiasi definizione logico-discorsiva (Wu Tzu dice: “Parlare di zen è come cercare tracce di pesce nel letto di un torrente asciutto”); in definitiva consiste nella liberazione da tutto ciò che di ingannevole e illusorio il mondo ci ha imposto dal giorno della nostra nascita e nell’aver raggiunto una condizione di totale vacuità, che segna il momento nel quale noi torniamo, al di là di fattori storici, ambientali, pedagogici, culturali, psicologici, morali, in contatto con noi stessi, l’atman, l’identità personale che incarna un principio universale ed eterno, il nostro vero io, che può essere scoperto, anzi: recuperato, solo al di là delle passioni e delle norme etiche, quindi, come suggeriva anche Nietzsche (uno dei più ‘orientali’ fra i nostri filosofi), al di là del bene e del male. I taoisti cinesi – che tante affinità presentano col buddhismo – useranno l’espressione ‘tornare alla radice’, ‘restituire il mandato’. Lao Tzu definirà così il Tao: “A guardarlo non riesci a vederlo, ad ascoltarlo non riesci a udirlo, ad usarlo non riesci a esaurirlo.” (35) L’illuminazione rivela la sostanziale coincidenza fra atman, cioè la nostra autentica identità personale, e brahman, l’energia cosmica universale, che coincidono, una volta abolita la mentalità dualistica che costringe a scelte. “Io sono Brahman”, dice il santo induista, e non per presunzione, al contrario: per umiltà, perché, annullando se stesso, si identifica totalmente con l’universo. In modo analogo, il mistico sufi al-Hallaj, il sublime ‘cardatore di coscienze’, sosteneva: “Sotto il mio saio, non c’è che Dio.
Ogni scelta rappresenta per il buddhista una ferita; ogni scelta equivale per il buddhista al ripudio di metà dell’universo; di più, al ripudio di metà di se stessi. “Poiché la verità non ha fissa dimora, non è il caso di operare scelte”, osservava un maestro cinese. E un altro: “Una distinzione sottile come un capello, e cielo e terra sono separati.” Il maestro Shin Jin Mei dice: “La Via perfetta non conosce ostacoli, esclude solo ogni scelta.” E sempre al-Hallaj, certo in un contesto religioso e culturale diverso (il misticismo sufi), ma sotto l’influsso di un’analoga ispirazione: “Non ho preferenza per nessuna dottrina in particolare.
Da questa identità fra atman e brahman deriva il principio della compassione universale. Che non è evidentemente, per il buddhista, una scelta, tanto meno una scelta morale dettata dal cuore o da sentimenti altruistici (sarebbe un fondamento ben fragile!); il fatto è che se tu ti identifichi con brahman (e non puoi farne a meno dal momento che siete la stessa cosa) ogni offesa fatta all’ambiente o agli altri esseri senzienti è un’offesa inferta alla tua stessa persona, al tuo atman. Se vien fatto del male a una creatura o a una pianta non puoi non soffrire perché è come se quel male fosse fatto a te. Una sentenza indiana recita: “Come ti è cara la vita, così è cara alle altre creature; vedendo dappertutto se stessi, i saggi esercitano la compassione.” E il Mahatma Gandhi sosteneva che: “Lo scopo della vita è indubbiamente quello di conoscere se stessi. Ma non possiamo farlo, se non impariamo a immedesimarci in tutto ciò che vive.

In questa condizione estrema, il santo indiano si rende virtualmente invulnerabile a qualunque insidia, come suggerisce efficacemente Dhammapada: “Colui nella cui mano non vi sia ferita può prendere con la mano il veleno: il veleno infatti non penetra dove non c’è ferita.” E il dottore buddista Santiveda postula il superamento di qualunque paura, un sentimento che può essere originato soltanto dall’erronea credenza in un’inesistente sostanza personale: “Paura ci sarebbe, senza dubbio, se io fossi qualcosa di reale, ma, visto che io non son nulla, di chi mai sarà la paura?” Confermerà il taoista Chuang Tzu: “Chi potrà nuocere a colui che avrà saputo vuotarsi del proprio io?

Vale forse la pena rimarcare il carattere fortemente elitario del buddhismo, che ha finito per determinare la sua poca ‘fortuna’ storica. La maggior parte delle persone vuole vivere nel flusso delle passioni e dei desideri di samsara; non nutre slanci metafisici, aneliti verso la consapevolezza suprema, le verità ultime del mondo. Il buddhismo si è quasi estinto nel luogo di nascita (l’India) e sopravvive altrove spesso sotto forma di ingenua devozione popolare e religiosità di massa (pensiamo solo a quelle enormi statue del Buddha che certamente avrebbero suscitato la disapprovazione di colui stesso che vi viene effigiato). L’India, non meno che la Cina e il Giappone, sembra oggi tristemente proiettata verso il materialismo, il capitalismo e il consumismo occidentali.

In Occidente si è imposta, a partire da Platone e Aristotele, una ideologia della verità e del progresso che ha travolto le conquiste della filosofia presocratica, la quale non era gravata da preoccupazioni e istanze etiche, e aveva una visione ciclica, non rettilinea, del tempo e della storia. Questa rivoluzione, aggravata dalla comparsa e dall’affermazione dei monoteismi, è alla base della nostra incomprensione del pensiero orientale il quale, sia pure indirettamente, appare più imparentato con Eraclito che con Socrate. L’occidentale vede nel mondo un coacervo di cose separate, tende a distinguerle l’una dall’altra e vede nella scienza la capacità, da parte dell’uomo, di esercitare il proprio dominio sulla natura. La scienza occidentale è sempre più specialistica, in una frammentazione capillare del sapere. Il taoismo cinese vede le cose in maniera diametralmente opposta: “La grande sapienza tutto abbraccia, la piccola sapienza distingue.” Questo antico ideale di saggezza è inconciliabile con le – presunte – esigenze della modernità e oggi è in crisi, e tradito, nella stessa Cina. Anche nel taoismo, come nel buddhismo, vige il principio dell’astensione: il santo taoista adotta la regola della non-azione, della non-scelta (in contrapposizione frontale, peraltro, rispetto all’inviso modello interventistico confuciano, che, nutrendo preoccupazioni in primo luogo sociali e politiche, predica la pratica di carità e giustizia e, appunto, l’azione [le ‘gesta’], in una difesa a oltranza della tradizione e delle gerarchie). Scrive Lao Tzu: “Chi eccelle non disputa… La via del Santo è di non contendere.
La logica dell’aut-aut, o questo o quello, è estranea al taoismo, che guarda anche con estremo sospetto alla parola, perché per sua natura e vocazione essa tende piuttosto a distinguere, definire, interpretare, a negare la coincidenza degli opposti, e ha fede nelle differenze; per cui il taoista mantiene scientemente un certa ambiguità e ama le cosiddette ‘parole- baule’, nelle quali poter infilare significati diversi, in modo da lasciare ampio margine all’intuito. “Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao; il nome che può essere nominato non è l’eterno nome”, sono le prime parole del Tao Te Ching, il testo fondamentale del taoismo, vergato da Lao Tzu. E l’altro grande maestro taoista, Chuang Tzu sosterrà: “Ogni discorso sul Tao va contro il Tao.” Questo modo di sentire è diffuso fra le élites intellettuali dell’intero Oriente; Gandhi scriveva: “Non c’è desiderio di parlare, quando si vive la verità. La verità è più economica delle parole. Non c’è, dunque, evangelismo più vero della vita.” E Zenrinkushu sottolinea la distanza che corre fra parola e concetto rappresentato: “Dicendo’ fuoco’ non ti brucerai le labbra; dicendo ‘acqua’ non annegherai.” Per finire, Lao-Tzu: “Le mie parole sono molto facili da comprendere, e molto facili da mettere in pratica. Eppure nel mondo non c’è chi possa comprenderle, né attuarle.
Il Tao respinge le opposizioni irriducibili e accoglie le contraddizioni, che sono solo le due facce diverse della stessa realtà. I due principi dello Yin e dello Yang (femminile e maschile) si contrappongono, si integrano, si compenetrano. Non c’è nessun dualismo manicheo, nessuno di quegli scontri bene-male o giusto-ingiusto a cui ci hanno fatto – tristemente – avvezzi i monoteismi.

Che cos’è dunque il Tao? E’ quella cosa della quale più si parla, meno la si definisce. Lao Tzu dice: “Com’è universale il grande Tao! Può stare a sinistra come a destra.” E ancora: “Far dimenticare l’esistenza dei piedi: è questo l’adattamento perfetto delle scarpe. Far dimenticare l’esistenza
delle reni: è questo l’adattamento perfetto della cintura. Far dimenticare la distinzione fra il pro e il contro dà la misura dell’adattamento perfetto dello spirito umano.
Per il taoismo il mondo è un sistema chiuso all’interno di un ordine ciclico in cui fine e inizio coincidono; una visione incompatibile con la nostra idea – rettilinea – di progresso. Una famosa parabola di Chuang Tzu esemplifica la relatività e inafferrabilità delle nostre stesse vite: “Una volta Chuang Tzu sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Chuang Tzu. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di esse Chuang Tzu. Non seppe più allora se era Tzu che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Tzu.

Quanto detto finora forse basta a suggerire tratti di somiglianza fra buddhismo e taoismo. Quando dall’India arrivarono in Cina i primi missionari buddhisti, dall’incontro fra buddhismo e taoismo nacque la scuola chan (poi zen in Giappone). Una scuola che predica un insegnamento che vada al di là delle parole e delle definizioni, che miri insomma a una conoscenza diretta, intuitiva. Chuang Tzu dirà: “Compiere senza sapere perché: ecco il Tao.”
Ed ecco, sullo stesso argomento, una parabola chan: Un giorno un allievo impertinente vide un gatto per strada e chiese al maestro: “Io lo chiamo gatto: e voi, maestro, come lo chiamate?” Il maestro rispose: “Tu che lo chiami gatto.” Le cose sono cioè, per i taoisti, irriducibili al linguaggio e quindi non può essere loro imposto un nome. Come nei presocratici, la realtà, nel suo continuo divenire, è perennemente incostante e quindi indefinibile. Non tollera di essere sottoposta a regole di sorta. Gli eventi reali non sottostanno a norme immutabili. Lo stesso Einstein riconosceva la correttezza di questa visione delle cose dicendo: “Nella misura in cui le proposizioni matematiche si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; e nella misura in cui esse sono certe non si riferiscono alla realtà.” Fritjof Capra, in Il Tao della fisica, illustra la sostanziale coincidenza tra le fondamentali intuizioni della filosofia indiana e cinese e molte delle scoperte del ‘900, in particolare la teoria della relatività e la meccanica quantistica.

Il taoismo si caratterizza per il rigetto di qualsiasi linguaggio che sia sostitutivo della realtà. Secondo E. Zolla noi occidentali abbiamo degradato il linguaggio a una insulsa cantilena, una caricatura del mondo circostante che persegue l’unico scopo di dissimulare ed esorcizzare il carattere rivoluzionario della realtà – quello stesso che, all’alba della filosofia, spingeva Eraclito a dire: “Non ci si bagna due volte nello stesso fiume.” (framm. 49a)
Il moralista rumeno Cioran sosteneva che, nel campo della filosofia, tutto ciò che è venuto dopo i presocratici sia superfluo. Ascoltiamo ancora Eraclito, il framm. 10: “E’ ai contrari che la natura tende e da essi compie l’accordo; come, per es., ha messo insieme il maschio con la femmina non ciascuno di essi col congenere, la prima concordia ha essa composto attraverso i contrari, non i simili, ecc.” O il framm. 102: “Per il dio belle son tutte le cose e buone e giuste, gli esseri umani invece han preso le une per ingiuste, le altre per giuste.
L’etica taoista persegue, al pari dei presocratici, l’unità dei contrari. Gli opposti ci sono e devono coesistere. Uno non può sussistere in assenza dell’altro. Chiamare uno ‘bene’ e l’altro ‘male’ implica già che il secondo debba essere eliminato per far luogo al primo. La distinzione morale bene- male persegue quindi una logica distruttiva: del bene non meno che del male. La storia umana ci offre, del resto, innumerevoli esempi delle catastrofi provocate dalle – cosiddette – buone intenzioni. Se bene e male si contrappongono, se una tesi prevale sull’altra, il Male ha già vinto, perché consiste proprio in questo: nella menomazione e nel dimezzamento progressivo della realtà. Sostiene Chuang Tzu: “La comparsa del bene e del male altera la nozione del Tao.

Trattenendoci in ambito cinese, ma agli esatti antipodi rispetto alla concezione del mondo taoista (per quanto poi le due scuole si siano, nei secoli, originalmente compenetrate), l’ethos confuciano, ideale laico di ordine mondiale al quale si allineano oggi la Cina virtualmente post- comunista e le aggressive ‘tigri’ asiatiche, privilegia valori quali autorità e gerarchia, ai quali debbono inchinarsi ed essere subordinati i diritti e gli interessi individuali, nel quadro di una visione fortemente verticistica del potere. (Un altro esempio orientale di riuscito compromesso fra tendenze apparentemente inconciliabili è la nipponica ‘via’ del samurai, singolare sintesi fra lo stringente ascetismo della filosofia buddhista e l’esercizio della violenza guerresca.)
Voltaire, dall’alto dei suoi ineffabili pregiudizi di occidentale – che non ci è discaro condividere – scriveva: “In Asia non possono aver conosciuto la vera eloquenza. Chi avrebbe dovuto persuadere? Degli schiavi.” Tesi alla quale un proverbio tipicamente cinese replica: “Non ci sono due soli nel cielo, non possono esservi due imperatori sulla terra.”: due forme di saggezza antitetiche, alle quali non sarà forse del tutto fuori luogo riconoscere pari dignità – se non altro per non ricadere in quella proverbiale arroganza occidentale che ormai tutti nel mondo, volenti o nolenti, hanno imparato a conoscere, e non oltrepassare quel punto fatale oltre al quale l’universalismo democratico sfocia in striscianti imperialismo e monolitismo culturali.
Famosi restano gli aforismi del fondatore della dottrina confuciana (incentrata sul rispetto della tradizione, il culto degli avi, ecc.), con la quale hanno dovuto misurarsi e scendere a patti tutti in Cina, anche Mao Tse-Tung e le sue guardie rosse, e che sono stati tramandati fino a noi:
“Ciò che l’uomo superiore cerca, lo cerca in se stesso, mentre l’uomo dappoco lo cerca negli altri.”
“Per una sola parola l’uomo superiore è giudicato savio, e per una sola parola è giudicato stolto.”
“Se il paese è in ordine, ci si vergogni della povertà e della miseria. Se il paese non è in ordine, ci si vergogni della ricchezza e degli onori.”

Dopo aver trattato – in modo fatalmente lacunoso e sbrigativo – temi tanto gravi, non ci dispiacerà forse concludere questo incontro con qualche citazione da proverbi, sentenze, detti orientali frutto della saggezza popolare, nei quali talvolta riecheggiano ancora i motivi che abbiamo – tanto sommariamente – trattato.
Sentenze indiane:
“Al re si fa onore nel suo paese, al dotto si fa onore ovunque.”
“I re debbono allontanare da sé quel servo che nel ricevere un ordine lo stima o facile o difficile.”
“Nella sventura si manifesta la forza dei grandi, non nella prosperità; il profumo dell’aloe non è mai così penetrante come quando è gettato nel fuoco.”
“Chi può conoscere a fondo gli animi degli uomini superiori, più duri del diamante e più delicati di un fiore?”
“Un coraggioso pensa nell’animo suo di dover raggiungere il suo scopo col coraggio, il pauroso con la viltà; e non avviene altrimenti.”
“L’avaro, richiesto di un dono, è più generoso dell’uomo generoso; poiché questi dà prima il denaro e poi – se occorre – la vita; mentre quello dà prima la vita, piuttosto che il denaro.”
“Il volto si copre di rughe, il capo è segnato di canizie, le membra si afflosciano… Solo la cupidigia resta sempre giovane.”
“Vi sono artisti che sanno fabbricare loti d’oro; ma solo il dio Brahma riesce a dar loro il profumo.”
“Ciò che non ti è stato destinato, per quanto tu faccia, non sarà mai tuo, e ciò che ti appartiene rimarrà tuo pur se lo getti via”.
A prescindere dalla religione e dalle questioni di ordine filosofico, anche la saggezza popolare cinese ha coniato nei secoli proverbi di grande efficacia, dei quali vale la pena citare qualche esempio:
“Quando un padre non si comporta da padre, il figlio non può comportarsi da figlio.”
“Chi conosce gli altri è erudito. Ma solo chi conosce se stesso è saggio.”
“Non si mescola l’acqua del pozzo con quella del fiume.”
“L’avaro è il custode e lo schiavo del proprio denaro.”
“Il combustibile si consuma, ma la fiamma può essere propagata.”
“L’uomo che davvero sa donare non invita gli altri a prendere.”
“Cosa davvero spregevole è la guerra, che richiede il meglio dagli uomini e dà il peggio.”
“L’uomo troppo stupido a volte non riesce nemmeno a commettere errori.”
“La casa dell’imperatore inizia con un mattone d’argilla.”
“L’uomo che fa il male e ne ha vergogna ha nell’anima la possibilità di redimersi. L’uomo che fa il bene e vuole farlo sapere a tutti ha nell’anima la possibilità di perdersi.”
“Non si assaggia due volte dallo stesso piatto.”
“Il bugiardo che ha detto le bugie si ritrova sempre la verità tra le mani.”
“Il fiume Azzurro e il fiume Giallo non potranno riempire un vaso incrinato.”
“A voler prendere pesci troppo grandi, la rete si rompe.”
“Fra tutte le maniere di ubriacarsi, la più radicale è inebriarsi di se stessi.”
“L’uomo che ha sposato una donna cattiva diventerà un filosofo.”
“Su una piccola pietra inciampò l’imperatore.”
“A molti pensieri seguano poche parole.”
“Si susseguono le stagioni, il sole alla luna, la semina al raccolto. Ma solo i grandi saggi e gli stupidi non cambiano mai.”
“Che le parole siano come le perle, rare e preziose.”
“Il saggio non accetta dal principe ricompense che non siano meritate.”
“A forza di essere malati si diventa buoni medici.”
“L’oro non compra neanche un attimo di vita.”
“A volte tessere il proprio bozzolo è restarne imprigionati.”
“Una canna da zucchero non è sempre dolce da tutte le parti.”
“Il vaso vale per ciò che può contenere.”

Grazie a tutti.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Bibbia
Dhammapada
Tao Te Ching (Il libro del Tao), Lao Tzu
Chuang-Tzu
Massime, Confucio
Le stanze del cammino di mezzo (Boringhieri) e Lo sterminio degli errori (BUR), Nagarjuna, entrambi a cura di Raniero Gnoli
Il dio che sorride, Sri Aurobindo (TEA)
Mille sentenze indiane, a cura di Paolo Emilio Pavolini (Sansoni)
Aforismi e pensieri, Gandhi (Newton & Compton)
Aforismi d’Oriente, a cura di Gino Ruozzi (GEDIT)
Non avrai altro Dio, Jan Assmann (Il Mulino)
Elogio del politeismo, Maurizio Bettini (Il Mulino)
La via dello zen, Alan W. Watts (Feltrinelli)
Il Tao della fisica, Fritjof Capra (Adelphi)
Il buddhismo, Pio Filippani Ronconi (Newton & Compton)
La filosofia indiana e Buddha, Leonardo Vittorio Arena (Newton & Compton)
Diario zen, a cura di Leonardo Vittorio Arena (BUR)
Il Taoismo, Aldo Tagliaferri (Newton & Compton)

Video omaggio dell’Aipla a Paolo Barbieri

Tra i numerosi servizi offerti dall’Aipla nel 2017, abbiamo deciso di dedicare a ognuno dei nostri soci un video specifico che contiene i suoi aforismi più significativi, scelti dal nostro Comitato di Lettura.

Ci auguriamo che la libera diffusione dei filmati rappresenti un incentivo a conoscerci meglio tra aforisti e a divulgare più capillarmente il genere della “forma breve” nella sua migliore tipologia.

Dopo quello dedicato a Marcella Tarozzi Goldsmith, il video che pubblichiamo qui di seguito riguarda gli aforismi di Paolo Barbieri.